PAROLE VIETATE, PENSIERI CENSURATI: LA LINGUA DELLA FINTA INCLUSIONE

La cultura woke e la cancel culture stanno trasformando il linguaggio in uno strumento di dominio: neutralizzare il sesso, riscrivere i significati, spegnere l’identità. La lotta non è più sulle idee, ma sulle parole che le definiscono.

POLITICA E SOCIETÀ

Adolfo Tasinato

5/6/20259 min read

di Adolfo Tasinato

La cultura woke e la cancel culture stanno trasformando il linguaggio in uno strumento di dominio: neutralizzare il sesso, riscrivere i significati, spegnere l’identità. La lotta non è più sulle idee, ma sulle parole che le definiscono.

Benvenuti nel mondo dove ‘madre’ è offensivo e ‘genitore gestante’ è progresso.”
Dove le parole antiche, cariche di significato e storia, vengono messe all’indice da un nuovo tribunale ideologico. Dove ciò che non è conforme viene silenziato e ciò che è ridicolo viene celebrato. È la rivoluzione del linguaggio ma senza poesia, senza emozioni, senza verità.

Viviamo in un’epoca in cui cambiare le parole significa distorcere la realtà. Le parole sono gli strumenti attraverso cui percepiamo il mondo e lo descriviamo e modificarle intenzionalmente altera non solo il linguaggio, ma anche la comprensione della verità. Questo fenomeno non è spontaneo: è parte di una strategia sistematica, coordinata e dotata di mezzi potenti, che alcuni analisti definiscono “guerra cognitiva”. Si tratta, in sostanza, dell’imposizione di una nuova forma di dittatura culturale e linguistica, camuffata sotto le insegne dell’inclusione e della sensibilità sociale.

La neolingua, concetto già profetizzato da George Orwell nel suo celebre "1984", oggi si manifesta attraverso il politicamente corretto e la cancel culture. Questi non sono che strumenti di un movimento più ampio e pervasivo che tende a un’omologazione del pensiero, dove ogni dissenso viene represso attraverso il controllo del linguaggio. L’obiettivo? Eliminare la complessità e la diversità, per sostituirle con formule linguistiche sterili, depurate dalle emozioni, incapaci di generare giudizio e riflessione critica.

Come scrive Ida Magli nel suo saggio Dopo l’Occidente, ciò che viene meno è la corrispondenza tra pensiero, giudizio e parola. Il linguaggio, in questo contesto, diventa uno strumento di coercizione ideologica e non più di libera espressione. Non si tratta soltanto di parole nuove, ma di parole imposte. Le vecchie parole, con tutta la loro carica storica, emotiva e identitaria, vengono bandite in nome di una finta libertà, che in realtà è una nuova forma di controllo.

Una finta libertà che divide

Ci troviamo dunque in una condizione paradossale: quella di una finta libertà in cui il politicamente corretto e la cancel culture ci tolgono parole usate da secoli, come "madre" e "padre", per obbligarci a utilizzare espressioni anonime e impersonali. Questa "inclusione linguistica" non ha nulla di inclusivo: serve solo a escludere chi ha una visione diversa, chi ancora vuole chiamare le cose con il loro nome, chi rifiuta l'appiattimento forzato del linguaggio.

Il linguaggio corretto dalla politica, spesso di matrice sinistra e globalista, ha l'obiettivo di ridurre la ricchezza espressiva della lingua. E, appiattendo la lingua, si impoverisce anche la capacità di vivere emozioni profonde, passioni, sentimenti veri. I termini diventano neutri, innocui, incolori: non per rispetto, ma per censura. E in questa censura delle parole si annida una censura più pericolosa, quella del pensiero.

Tutto ciò non produce maggior rispetto ma divide le persone ed è quello che fa comodo al potere globalista ora in crisi.

Come sottolinea Roberto Pecchioli nel suo bel libro “La guerra delle parole” al quale questo articolo si ispira, la lingua non è solo uno strumento di comunicazione: è identità, è memoria, è Nazione. In Italia, questo è ancora più evidente. La nostra lingua, l’italiano, è la più antica lingua comune d’Europa, è un patrimonio culturale che porta con sé la storia, la sensibilità e la bellezza di un popolo. Difenderla e tramandarla è un dovere civico e morale.

Non è un caso che intellettuali come Luigi Settembrini definissero la lingua come “il sostituto della Patria”. Oggi, però, ci troviamo in un contesto dove l'open day ha preso il posto della giornata aperta, lo spread e il fiscal compact si usano nei notiziari come se fossero parole italiane e persino il calcio ha ceduto all’anglicismo: Champions League, playoff, VAR.

La guerra alle parole, alla realtà e all’umano

C’è una rivoluzione in atto, ma non ci sono barricate né fucili. Si combatte con parole. Anzi: si combattono le parole. Si modificano, si svuotano, si ribattezzano. È la guerra semantica della cancel culture, la grande purga linguistica del mondo woke, che mira a riscrivere la realtà alterando il linguaggio. E nel mirino c’è la più antica delle distinzioni: quella tra maschio e femmina.

Il meccanismo è raffinato, ma non nuovo: si prende una parola chiave, come “sesso” e la si trasforma in qualcosa di astratto, neutro, ambiguo. Il sesso, da dato biologico, diventa “genere”, poi “identità di genere”, poi fluido, poi indefinito. Si è arrivati a creare tanti generi quante sono le pulsioni sessuali, certamente legittime ma che certamente non sono il biglietto da visita di una Persona.

Qui entriamo nel cuore del pensiero woke e delle teorie gender fluid: il genere non è visto come binario (uomo/donna), ma come uno spettro. Non esiste un numero "fisso" di generi. Alcuni esempi riconosciuti in ambiti accademici, attivisti o culturali sono: Uomo, Donna, Non-binario, Genderqueer, Genderfluid, Agender, Bigender, Demiboy/Demigirl e per finire in bellezza abbiamo il genere Two-spirit ! Ma attenzione in ambienti che si definiscono “molto inclusivi” arriviamo ad oltre 50 generi!

Il processo è chiaro: si smaterializza la differenza ma si creano fazioni, si cancella il dato naturale, si impone l’indistinto. Tutto in nome di un’uguaglianza che non emancipa, ma omologa. È il vecchio divide et impera riletto in chiave postmoderna: eliminare le identità forti per creare individui deboli, intercambiabili, manipolabili.

Lo schema è stato descritto con lucidità nelle pagine che circolano sempre più tra chi cerca di decodificare questa follia del nostro tempo. La società industriale avanzata, scrivono gli autori di queste riflessioni, non può più sopportare il concetto stesso di “genere” nel suo significato tradizionale, perché ogni distinzione, ogni radice, ogni differenza concreta è un ostacolo alla grande utopia dell’uomo unisex, homo oeconomicus ridotto a semplice consumatore.

Il linguaggio, si sa, non è mai neutro. E proprio per questo è il primo campo di battaglia. Nella neolingua del mondo woke, ogni parola deve essere ripulita dalla realtà, sterilizzata dalle sue radici antropologiche. “Trans” non è più solo un prefisso, ma il segno di una volontà prometeica di superare ogni limite: biologico, spirituale, simbolico. Trans-genere, trans-umano, trans-umanesimo. Una transizione perpetua verso il nulla, verso l’astrazione totale dell’umano.

A ben vedere, non è solo un fatto di costume o di morale. È una rivoluzione economico-politica. Se ogni essere umano è ridotto a frammento disgregato, senza identità personale, diventa il consumatore ideale. Sempre in crisi, sempre in cerca di gratificazione, sempre in lotta per riconoscersi in qualcosa. La fluidità sessuale diventa allora non solo una scelta individuale, ma una strategia sistemica: un passo fondamentale per creare il cittadino perfetto per il mercato globale. Non uomo, non donna, ma cliente.

Nel frattempo, ogni tentativo di conservare un linguaggio aderente alla realtà, dire che i sessi sono due, che la maternità è femminile, che il padre è maschio, viene bollato come “odio”. Il politicamente corretto è diventato la nuova ortodossia. La grammatica come nuova teologia dogmatica. E chi dissente viene scomunicato: dal dibattito, dalla carriera, dalla rete.

Il paradosso è che questa nuova religione dell’uguaglianza assoluta non porta affatto a una maggiore giustizia sociale. Al contrario, genera disordine, insicurezza, solitudine. Uomini e donne privati della propria identità sessuata, giovani confusi fin dall’infanzia da modelli instabili e contraddittori, adulti incapaci di costruire relazioni solide in un mondo dove tutto è liquido, tutto è “non-binario”.

In Italia come in altri Paesi addirittura si spendono soldi pubblici per imporre a giovani studenti ancora bambini, in una fase quindi di maturazione della personalità, corsi sulla affettività e sulla teoria di genere, che poi non sono altro che la propaganda di un mondo dove non esistono uomini e donne ma individui incerti, senza riferimenti, fluidi.

Un danno enorme per la stabilità emotiva e cognitiva. La sinistra grida alla censura e al medioevo ma fanno finta di non sapere che i censori sono proprio i seguaci del woke e della cancel culture, quelli della inclusività che esclude e della sostenibilità insostenibile.

E se qualcuno osa notare che tutto questo ha un costo umano altissimo, viene zittito, deriso, etichettato. Ma le etichette, anche quelle con l’arcobaleno stampato sopra, non cancellano la verità. Solo la nascondono, temporaneamente.

Ecco allora il senso più profondo di questa operazione linguistica: togliere all’uomo la parola e con essa la capacità di nominare la realtà. Perché chi perde le parole, perde anche la possibilità di capire e di scegliere. Diventa solo ciò che altri hanno deciso che debba essere: neutro, fluido, disponibile.

Ma c’è una resistenza che può e deve essere giocata proprio sul piano delle parole. Ritornare a chiamare le cose col loro nome. Dire maschio e femmina. Dire madre e padre. Dire realtà. Perché la verità, per quanto occultata, resta lì. Come un seme sotto la neve. E basterà una stagione diversa, meno ideologica, meno isterica, meno radical chic e più umana, perché torni a germogliare.

La neutralizzazione mondialista, come viene definita da alcuni studiosi, attacca ogni radice culturale e simbolica. Svaluta l’idea di maternità, paternità e trasmissione culturale, negando le identità storiche per imporre un modello di individuo sradicato, privo di legami e di storia, perfetto consumatore globale ma senza appartenenza.

Nella corsa all’identico, nella fobia per la differenza, il linguaggio si adegua: le parole vengono svuotate di significato o bandite, e al loro posto si impone una parlata grugnente, meticcia, anonima. Eppure, come ricordava Hegel, è proprio della più alta cultura di un popolo il poter esprimere tutto nella propria lingua. Quando non riusciamo più a trovare le parole, quando dobbiamo rifugiarci nei forestierismi per nominare ciò che ci è vicino, siamo già diventati stranieri a noi stessi.

Senza lingua madre, siamo migranti dell’anima. Persone in transito, senza radici. Il mondialismo pretende masse uniformi, prive di identità, plasmate a immagine e somiglianza di un potere tecnocratico e senza volto. Nessuna Patria, nessun principio forte, nessun linguaggio per esprimere ciò che sentiamo.

Cambiare i significati, mutare i suoni familiari, non è una semplice evoluzione linguistica: è una forma di repressione. Alla lunga, rende afasici. Non si trovano più le parole per dire “no”, per dissentire, per emozionarsi. Sotto il velo delle parole nuove, si nasconde una strategia vecchia come il potere: dominare, dividere, silenziare.

Il risultato non è maggiore rispetto, ma maggiore conflitto. Le persone si sentono isolate, incapaci di comunicare davvero, di esprimere dissenso, di celebrare la propria identità. E questo è esattamente ciò che conviene al potere globalista, ora in crisi: una società divisa, confusa, priva di strumenti critici.

Le iniziative a difesa della lingua italiana

In Italia il Governo, attento anche al valore della nostra lingua madre, sta prendendo diverse iniziative che hanno l'obiettivo di salvaguardare la lingua italiana elemento fondamentale per garantire storia, cultura ed identità della Nazione ed aggiungo anche la sua sovranità.

La Commissione Cultura della Camera dei Deputati, presieduta dall'On. Federico Mollicone, ha proposto diverse iniziative per valorizzare e tutelare la nostra lingua, riconoscendola come elemento fondamentale dell'identità nazionale. Ecco alcune delle principali azioni intraprese.

E' stata presentata una proposta di legge che mira a istituire un Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana. Questa iniziativa sottolinea l'importanza della lingua italiana come patrimonio culturale e identitario, promuovendo il suo utilizzo anche nella terminologia amministrativa e nei mezzi di comunicazione pubblici .

A partire dal 2024, è previsto un contributo annuo di 5 milioni di euro all'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Questo finanziamento è destinato a sostenere attività come l'aggiornamento della Biografia Nazionale, l'Osservatorio della lingua italiana e la digitalizzazione dei contenuti, favorendo anche la loro diffusione internazionale.

All'esame una proposta di legge che prevede l'istituzione di una giornata dedicata alla scrittura a mano. L'obiettivo è valorizzare la calligrafia come espressione culturale e strumento per lo sviluppo cognitivo, contrastando fenomeni come l'analfabetismo.​

Nel dicembre 2024, è stato firmato un protocollo d'intesa tra la Camera dei Deputati e l'Accademia Nazionale dei Lincei. Questo accordo prevede la promozione di iniziative culturali, cicli di lezioni e l'istituzione di borse di studio, con l'obiettivo di valorizzare il patrimonio storico-culturale italiano.​

Difendere il linguaggio per difendere la libertà

Nel tempo in cui l’informazione corre più veloce della riflessione, chi non ha sviluppato difese immunitarie intellettive finisce in balia delle “pandemenze”, epidemie di banalità e falsità che si propagano attraverso i mass media con la velocità di un click.

Questi virus cognitivi non si limitano a distorcere la realtà: la impoveriscono, la rendono digeribile a chi non ha più gli strumenti per decodificarla. E qui entra in gioco l'arma fondamentale: la lingua.

Perché è attraverso la lingua che pensiamo, capiamo, scegliamo. Quando il lessico si riduce, anche il pensiero si restringe. I media, spesso, preferiscono parole-spugna, slogan replicabili, formule vuote che sostituiscono il ragionamento. E più il linguaggio si fa povero, più diventa fertile il terreno per le pandemenze: è il trionfo dell’ambiguità che semina confusione e convince senza spiegare.

La vera immunità passa dalla padronanza della lingua, dalla capacità di nominare con precisione, di distinguere tra ciò che è detto e ciò che è solo urlato.

È fondamentale quindi resistere a questa deriva linguistica, preservare la ricchezza e la complessità delle lingue madri e difendere la libertà di espressione in tutte le sue forme. La neolingua del politicamente corretto, cioè corretta dal potere, rappresenta una seria minaccia ai valori fondamentali della società come democrazia e libertà.

È necessario essere consapevoli di questi rischi e promuovere un uso del linguaggio che sia libero, critico e rispettoso della pluralità delle voci e delle esperienze. Solo così potremo evitare che il nostro pensiero venga comunicato in un rudimentale esperanto costruito a tavolino, impoverendo la nostra capacità di comprendere e interpretare il mondo che ci circonda.

Se vogliamo difendere la libertà, dobbiamo prima di tutto difendere il linguaggio. Dobbiamo rigettare l’imposizione della neolingua e riscoprire la bellezza della nostra lingua madre.

Perché chi controlla le parole, controlla il pensiero. E chi controlla il pensiero, controlla il futuro o come diceva Charles Baudelaire: “Ciò che la bocca si abitua a dire, il cuore si abitua a credere”.