

di Adolfo Tasinato
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca segna l'inizio di una nuova fase nelle politiche commerciali americane. La sua amministrazione ha l'intenzione di implementare una strategia tariffaria aggressiva, riprendendo e ampliando l'approccio del suo primo mandato. Strategia ricca di colpi di scena con dazi applicati e poi subito sospesi per 90 giorni. Ma quali sono i veri obiettivi dietro questa politica e quali scenari potrebbero delinearsi nei rapporti con i principali partner commerciali degli Stati Uniti?
Le tariffe annunciate da Donald Trump non sono solo una misura protezionista o una provocazione elettorale. Rientrano invece in una visione strategica ben più ampia: riscrivere completamente l'ordine globale costruito negli ultimi ottant'anni. Un ordine in cui gli Stati Uniti hanno ricoperto il ruolo di potenza egemone, garantendo, anche durante la Guerra Fredda, la sicurezza delle rotte commerciali e la stabilità del sistema economico internazionale.
L'amministrazione Trump 2.0 parte da una constatazione diffusa in molti ambienti strategici a Washington: gli Stati Uniti non sono più in grado di sostenere i costi industriali, politici, finanziari e militari di questo ruolo. La strategia americana, dunque, punta oggi a gestire in modo proattivo e non reattivo la transizione verso un nuovo ordine multipolare basato su sfere di influenza regionali.
In questo quadro, i dazi non vanno letti come strumenti di politica economica, ma come leve geopolitiche. Si tratta di una azione che non prevede un passo indietro, nessuna via di ritorno. Una mossa estrema che ha senso solo se si accetta l'idea che l'egemonia americana sia già in fase di declino irreversibile. In questa prospettiva, non si tratta più di vincere in senso assoluto, ma di perdere meno degli altri. È un gioco a perdere e vince chi riesce a sopravvivere al caos meglio degli altri.
Gli obiettivi dichiarati della strategia tariffaria
La strategia dei dazi dell'amministrazione Trump si basa su diversi obiettivi dichiarati. Il primo e più evidente è la protezione dell'industria nazionale. Trump ha ripetutamente sostenuto che le aziende americane sono state penalizzate da decenni di accordi commerciali "iniqui" che hanno permesso a concorrenti esteri di inondare il mercato statunitense con prodotti a basso costo.
Il secondo obiettivo è il riequilibrio della bilancia commerciale. Gli Stati Uniti mantengono deficit commerciali significativi con molti partner, in particolare con la Cina. L'imposizione di dazi mira a ridurre queste disparità, incentivando l'acquisto di prodotti americani e riducendo le importazioni.
Il terzo obiettivo è la creazione di posti di lavoro. La teoria è semplice: proteggendo l'industria nazionale e riducendo le importazioni, le aziende americane saranno in grado di espandere la produzione e, di conseguenza, assumere più lavoratori. Questo è stato un tema centrale della campagna elettorale di Trump, con la promessa di rivitalizzare le regioni industriali in declino.
Infine, c'è l'obiettivo di aumentare le entrate fiscali. I dazi, in quanto tasse sulle importazioni, generano entrate per il Tesoro americano. In un momento di elevato deficit pubblico, questa considerazione non è secondaria.
Gli obiettivi strategici non dichiarati
Al di là della retorica ufficiale, la strategia tariffaria di Trump persegue anche obiettivi più sottili e strategici. Innanzitutto, i dazi fungono da leva negoziale nei rapporti con gli altri paesi. Minacciando o imponendo tariffe, l'amministrazione Trump cerca di ottenere concessioni dai partner commerciali in vari settori, non solo economici ma anche geopolitici.
In secondo luogo, c'è una chiara volontà di ridurre la dipendenza dalla Cina in settori strategici. La pandemia ha messo in luce le vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globalizzate, e la nuova amministrazione sembra determinata a riportare in patria o a diversificare le fonti di importazione per prodotti essenziali.
Un terzo obiettivo non dichiarato è quello di rallentare l'ascesa economica e tecnologica della Cina. I dazi su settori ad alto contenuto tecnologico mirano a limitare l'accesso cinese al mercato americano e a rallentare l'acquisizione di know-how, in una logica di competizione strategica a lungo termine.
Trump punta così a mantenere il controllo dell'agenda globale, anche a costo di generare disordine: tariffe shock, dichiarazioni provocatorie, strategie imprevedibili. Il caos, infatti, diventa esso stesso parte della strategia. In un mondo disorientato, solo gli attori più forti possono adattarsi. E gli Stati Uniti, sebbene indeboliti, restano ancora la potenza dominante. Ma non per molto.
A poche settimane dall'annuncio delle prime misure, l'agenda mondiale è già cambiata. Il discorso pubblico internazionale si è adattato ai toni trumpiani. Tuttavia questa strategia presenta limiti evidenti. Il più importante è la sottovalutazione della capacità di reazione dei Paesi che vengono percepiti come "preda".
Infine, la politica tariffaria serve anche a consolidare la base elettorale di Trump. L'enfasi sulla protezione dell'industria e dei lavoratori americani risuona particolarmente nelle regioni della "Rust Belt", cruciali per la vittoria elettorale.
Le relazioni sino-americane, già tese durante il primo mandato di Trump, potrebbero evolvere secondo diversi scenari.
Il primo è quello di una escalation controllata. In questo scenario, entrambe le parti alzano progressivamente la posta in gioco con nuovi dazi e contromisure, pur mantenendo aperte le linee di comunicazione diplomatica. È uno scenario di "guerra commerciale fredda", dove le tensioni economiche non sfociano in confronti più seri grazie a una rete di interessi reciproci che funge da stabilizzatore.
Il secondo scenario è quello della de-escalation negoziata. L'aumento dei dazi potrebbe essere solo una tattica negoziale, finalizzata a ottenere concessioni da Pechino. Una volta ottenute alcune vittorie simboliche, Trump potrebbe accettare un accordo che gli permetta di rivendicare un successo politico, pur facendo marcia indietro sulla maggior parte delle tariffe.
Il terzo e più preoccupante scenario è quello del disaccoppiamento economico. In questo caso, i dazi sarebbero solo l'inizio di una strategia più ampia per separare le economie americana e cinese, con restrizioni crescenti sugli investimenti, sulla tecnologia, e persino sugli scambi accademici e culturali. Questo scenario avrebbe profonde implicazioni globali, accelerando la frammentazione dell'economia mondiale in blocchi distinti.
Un quarto scenario è quello della regionalizzazione delle catene del valore. Anziché un disaccoppiamento completo, si potrebbe assistere a una riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, con aziende americane che si spostano dalla Cina verso altri paesi asiatici come Vietnam, Indonesia o India, o verso nazioni latinoamericane. Questo "China+1" o "nearshoring" permetterebbe alle imprese americane di diversificare i rischi senza rinunciare completamente ai vantaggi della produzione a basso costo.
La guerra in Ucraina ha dimostrato che anche attori considerati marginali possono sovvertire i piani delle grandi potenze. E mentre l'amministrazione Trump persegue la sua strategia dei dazi, un fatto sorprendente sta emergendo: Cina, Giappone e Corea del Sud iniziano a coordinarsi contro la politica dei dazi statunitensi, un fatto impensabile solo poche settimane fa, che indica come le dinamiche di potere in Asia possano evolvere in direzioni inaspettate.
Possibili scenari nelle relazioni con l'Europa
Anche le relazioni transatlantiche potrebbero subire significative trasformazioni.
Il primo scenario è quello del ricatto commerciale. Trump potrebbe usare la minaccia di dazi, in particolare sull'industria automobilistica, per ottenere concessioni dall'Unione Europea su questioni come la spesa militare nella NATO o l'adozione di politiche più dure nei confronti della Cina.
Il secondo scenario è quello della competizione tra blocchi. L'UE potrebbe rispondere alle tariffe americane con proprie misure protezionistiche, accelerando il proprio percorso verso l'autonomia strategica e rafforzando i legami commerciali con la Cina e altri partner globali. Questo potrebbe portare alla formazione di due blocchi commerciali distinti, con l'UE che bilancia le relazioni tra USA e Cina.
Il terzo scenario è quello della convergenza selettiva. Nonostante le tensioni commerciali, USA e UE potrebbero trovare terreno comune su questioni come la regolamentazione della tecnologia, la protezione della proprietà intellettuale o la lotta contro le pratiche commerciali cinesi ritenute sleali. Questo approccio pragmatico consentirebbe di preservare la cooperazione in aree di interesse comune, pur mantenendo divergenze su specifiche questioni tariffarie.
Un quarto scenario è quello della frattura intra-europea. I paesi dell'UE potrebbero rispondere in modo disomogeneo alle pressioni americane, con alcuni che cercano accordi bilaterali favorevoli con Washington a scapito della solidarietà europea. Questo potrebbe indebolire la posizione negoziale dell'UE e creare tensioni all'interno del blocco, specialmente tra paesi con diverse dipendenze dal mercato americano.
L'Europa, che secondo la visione americana potrebbe collassare sotto il peso del caos indotto dai dazi, sta invece mostrando qualche segno di reazione seppure in ordine sparso: si arma, si riorganizza, cerca di sviluppare una nuova autonomia strategica. Per l'Europa e per il resto del mondo l'unica strategia possibile diventa allora quella di "pensare l'impensabile". Inclusa l'eventualità di nuovi conflitti. Perché, se non si è pronti a concepire scenari radicali, si rischia di subirli senza poter reagire.
I rischi della strategia tariffaria
La strategia dei dazi di Trump, pur potenzialmente efficace in alcuni ambiti, comporta rischi significativi. Il primo è l'inflazione. I dazi sono essenzialmente tasse che in larga parte vengono trasferite sui consumatori sotto forma di prezzi più elevati. In un contesto già caratterizzato da pressioni inflazionistiche, questo potrebbe essere particolarmente problematico.
Il secondo rischio è quello delle ritorsioni. Come dimostrato durante il primo mandato di Trump, i partner commerciali colpiti da dazi tendono a rispondere con proprie misure tariffarie, spesso mirate a settori politicamente sensibili come l'agricoltura. Questo può creare un circolo vizioso che danneggia tutte le parti coinvolte.
Un terzo rischio è l'incertezza economica. La volatilità delle politiche commerciali rende difficile per le aziende pianificare investimenti a lungo termine, potenzialmente rallentando l'innovazione e la crescita economica.
Infine, c'è il rischio di isolamento diplomatico. Una politica commerciale aggressiva e unilaterale potrebbe alienare alleati storici, indebolendo la posizione degli Stati Uniti nel sistema internazionale.
La vera incognita è il futuro: le leve su cui oggi si fonda la strategia americana potrebbero indebolirsi molto più rapidamente del previsto. E l'idea di controllare il disordine globale attraverso i dazi potrebbe sfuggire di mano, generando dinamiche imprevedibili che nemmeno la superpotenza americana sarebbe in grado di governare.
La strategia dei dazi di Trump rappresenta più di una semplice politica commerciale: è l'espressione di una visione del mondo e delle relazioni internazionali profondamente diversa da quella che ha dominato gli ultimi decenni. È una strategia che punta a gestire in modo proattivo il declino dell'egemonia americana, accettando l'idea che l'ordine globale costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale non sia più sostenibile.
In questa visione, i dazi non sono strumenti economici ma leve geopolitiche in una "politica dei ponti bruciati" che non prevede vie di ritorno. Il caos diventa parte integrante della strategia: in un mondo disorientato, gli Stati Uniti, pur indeboliti, restano ancora la potenza più capace di adattarsi e trarre vantaggio dal disordine.
Le conseguenze di lungo periodo dipenderanno in larga misura dalle reazioni di Cina ed Europa, e dalla capacità dell'amministrazione Trump di calibrare la propria strategia. Ma già si vedono segnali che gli attori internazionali stanno reagendo in modi inaspettati: l'Europa cerca una nuova autonomia strategica, mentre in Asia si formano alleanze impensabili fino a poco tempo fa.
La scommessa di Trump è che un approccio più assertivo e unilaterale possa servire meglio gli interessi americani rispetto al multilateralismo che ha caratterizzato l'ordine post-guerra fredda. Una scommessa rischiosa, che potrebbe accelerare, anziché rallentare, il declino dell'influenza americana a livello globale.
Vediamo cosa accadrà dopo l'annunciato congelamento per tre mesi dei nuovi dazi, qualcosa di più ci dirà l'atteso incontro tra il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ed il Presidente USA che sarà immediatamente seguito da un viaggio di Vance in Italia. Giorgia Meloni in questo momento gioca un ruolo difficile ed importante per l'Italia e per l'Europa che ha la necessità di trovare una nuova configurazione ed un ruolo a livello internazionale.
Per ora i colleghi europei della Meloni sembrano usciti da un asilo infantile viste le polemiche acidule nei confronti del Presidente del Consiglio italiano ma sono certo che questo non costituisce un problema per una persona che conosce bene la politica e le sue regole scritte e non. Sull'atteggiamento dell'opposizione al Governo italiano invece stendo un velo pietoso.
In un contesto così fluido e imprevedibile, "pensare l'impensabile" diventa non solo un esercizio intellettuale, ma una necessità strategica per tutti gli attori globali. Perché, se non si è pronti a concepire scenari radicali, si rischia di subirli senza poter reagire. Il sistema commerciale globale che emergerà nei prossimi anni sarà probabilmente molto diverso da quello che abbiamo conosciuto finora e le sue caratteristiche dipenderanno anche da come il mondo reagirà alla strategia di Trump.