DAZI E DAZIATI: L'OPPOSIZIONE ITALIANA TRA AMNESIE SOVRANISTE E TELEVENDITORI
Il caso dei dazi con gli Stati Uniti
POLITICA E SOCIETÀ
Adolfo Tasinato
8/1/20255 min read


L'Italia, si sa, è il Paese delle contraddizioni. Ma negli ultimi tempi l'opposizione al Governo Meloni sta raggiungendo vette di schizofrenia politica degne di un trattato di psicopatologia. Il caso dei dazi con gli Stati Uniti è l'ultima esilarante dimostrazione di come la sinistra italiana e i suoi alleati riescano a fare a pugni con la logica, la coerenza e, in certi casi, la realtà stessa.
Immaginate la scena: gli Stati Uniti annunciano dazi su alcuni prodotti europei. Apriti cielo! L'opposizione italiana, in un coro unanime, punta il dito contro Giorgia Meloni. "È colpa sua! La sua politica sovranista ci isola! La sua Europa non funziona!". Sembrerebbe logico, se non fosse per un piccolo, trascurabile dettaglio: la politica commerciale europea è gestita dall'Unione Europea, un'entità in cui la sinistra italiana si vanta di avere un ruolo di primo piano. Anzi, a Bruxelles, la sinistra è di fatto al governo! Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, non è certo una pedina della Meloni, ma piuttosto l'espressione di equilibri europei in cui le forze progressiste hanno un peso notevole.
E qui casca l'asino, o meglio, crolla il castello di carte dell'opposizione. Per anni ci hanno martellato con la necessità di "più Europa", di un'Europa forte, unita, capace di dettare l'agenda globale. Ora che l'Unione europea, sotto la loro guida è risultata essere un fallimento clamoroso, si trova ad affrontare la questione dei dazi, improvvisamente la responsabilità ricade sulla premier italiana, accusata di essere troppo "sovranista".
Ma allora, se la sinistra "governa" l'Europa, se è convinta della sua centralità e forza, perché non si assume le proprie responsabilità? Perché non sfiducia la Von der Leyen, se l'Europa che loro stessi contribuiscono a plasmare è così fallimentare nella difesa degli interessi italiani? La risposta è semplice: la coerenza è un lusso che l'opposizione italiana non può permettersi. Meglio attaccare la Meloni, anche a costo di svelare la propria natura più sovranista della Meloni stessa, quando fa comodo ovviamente.
E a rincarare la dose di questa comica contraddizione arriva un altro illustre esponente: Romano Prodi. Il "Professor mortadella", come lo chiamava qualcuno con affetto e un pizzico di ironia, si erge a paladino del "sovranismo" anti-dazi, impartendo lezioni di geopolitica. Peccato che la sua memoria sembri soffrire di proverbiali amnesie di comodo, soprattutto quando si parla di accordi internazionali.
Dobbiamo forse ricordargli la sua gestione dell'IRI nel 1985, quando tentò di svendere un ramo strategico come la SME alla Buitoni di Carlo De Benedetti, all'insaputa persino del Presidente del Consiglio Bettino Craxi? Fu proprio Craxi a bloccare quell'operazione, giudicata una vera e propria svendita, visto che arrivarono offerte ben superiori. La SME fu successivamente spezzettata e venduta a partire dai primi anni ’90. Sotto la guida di Prodi, per la cronaca, l’IRI avviò la liquidazione di grandi aziende dell’acciaio e delle infrastrutture, come Finsider, Italsider e Italstat.
Un campione di sovranismo, insomma, quando si tratta di svendere pezzi pregiati dell'industria italiana a prezzi di saldo.
E che dire del suo amore sviscerato per la Cina? Nel suo quinquennio alla guida della Commissione Europea (1999-2004), Prodi si innamorò talmente del gigante asiatico da dimenticare l'impatto distorsivo del suo regime sull'economia globale.
Tuttavia, questa apertura commerciale portò a un boom nell'importazione di merci cinesi in Europa e Italia, che aumentò del 700% nel periodo 2000-2004, con conseguenti tensioni in alcuni settori industriali europei, specialmente il tessile in Italia, che vide molte aziende in crisi e decine di migliaia di posti di lavoro a rischio.
E lo scorso anno, l'illuminato fondatore dell'Ulivo è tornato a Pechino, magnificando l'economia cinese e invocando la cessazione di ogni sanzione, persino assumendo una cattedra nella "Agnelli Chair of Italian Culture" istituita dalla Fondazione della famiglia Elkann (i rottamatori della FIAT). Ha descritto la Cina come una sorta di entità salvifica, dimenticando che gli squilibri a favore del regime comunista hanno dopato il mercato e provocato duri contraccolpi in Occidente. Le sue solite, proverbiali amnesie di comodo.
E poi c'è lui, l'immancabile Matteo Renzi. Il nostro ex-rottamatore, ormai più simile a un'affettuosa caricatura di se stesso con le sue smorfie da televenditore e gli slogan che farebbero impallidire Vanna Marchi (bravo comunque chi glieli scrive), si lancia in un'altra delle sue ardite proposte. Per risolvere la questione dei dazi, Renzi propone un mediatore d'eccezione: Mario Draghi.
Sì, proprio lui, l'uomo del Britannia, il banchiere centrale, il nume tutelare della finanza internazionale che, non a caso, Cossiga definiva un "vile affarista". L'uomo che ha sempre sostenuto un'Europa delle banche e della finanza, un'Europa che per la sinistra era ed è il male assoluto, a parole ma non nella pratica in quanto essere i portavoce di chi ha tanti soldi ha sempre il suo perché.
Ora una parte della sinistra, per bocca del suo più eccentrico rappresentante, invoca l'uomo che incarna tutto ciò che hanno sempre osteggiato, per risolvere un problema che, a loro dire, è colpa della Meloni. È come chiedere a un lupo di fare da paciere in un ovile. Renzi, con la sua inarrestabile prosopopea, sembra ormai la parodia di un politico, più impegnato a vendere pentole antiaderenti che a tessere strategie internazionali.
Ogni sua uscita è un "colpo" da maestro, un principio che diventa un dogma: "non mi dimetto mai anche se perdo il referendum" che riecheggia in un vuoto pneumatico di reale incisività. L'ex premier, con le sue facce strambe e il suo stile da bullo toscano, incarna perfettamente la tragicommedia di un'opposizione che, più che costruire alternative, si diletta in piroette acrobatiche e contraddizioni palesi.
Con grave danno per la dialettica politica nazionale che non produce proposte valide e fattibili, alternative a quelle che propone la maggioranza che governa.
Ma le contraddizioni dell'opposizione non si fermano ai dazi o alle performance renziane. C'è un'ombra inquietante che si allunga, quella dell'antisemitismo crescente, celato dietro un malcelato "filo-palestinismo". La sinistra italiana e il Movimento 5 Stelle, così zelanti nel condannare ogni presunta sfumatura di "fascismo" o "intolleranza", diventano stranamente ciechi e muti di fronte alle atrocità di Hamas.
Non una parola sugli ostaggi ebrei, ancora segregati e torturati. Non un cenno sui veri terroristi che hanno scatenato l'inferno.
In compenso, si ergono a paladini della "Palestina libera", invocando il riconoscimento di uno "Stato" che, nei fatti, non ha confini definiti, non ha un'unità territoriale e la cui unica vera entità governativa è, di fatto, Hamas. È questo lo "Stato" che vogliono riconoscere? Uno Stato terrorista? La retorica, abilmente distorta, trasforma le vittime in carnefici e i carnefici in "resistenti".
È una deriva pericolosa, un cortocircuito morale che, ancora una volta, rivela la profonda incoerenza di chi, a parole, si batte per i diritti umani ma, nei fatti, sembra dimenticare quelli degli ebrei, pur di attaccare un governo o di cavalcare una moda.
In definitiva, l'opposizione italiana si presenta come un mosaico di contraddizioni, un balletto in cui i ballerini cambiano ruolo e maschera a seconda del vento politico. Un tragicomico spettacolo che lascia l'amaro in bocca per la totale assenza di una visione coerente e credibile per il futuro dell'Italia. E in tutto questo, la vera vittima è la politica stessa, trasformata in un circo di accuse infondate, piroette retoriche e, ahimè, derive pericolose.